Fine del Lockdown, Giovanni Pascoli e Olinto Dini

Ci siamo, anche qui finalmente siamo arrivati alla fine del confinamento. La differenza l’ho sentita da subito, a svegliarmi, come succedeva oramai da quasi due mesi, non si sono presentati i pappagallini verdi che hanno fatto il nido sull’albero di fronte alle mie finestre e nemmeno le gazze che bazzicano la terrazza dei miei vicini, bensì i clacson delle auto in coda, lungo il boulevard troppo trafficato, sul quale si affaccia l’appartamento dove vivo. Un trauma, oramai mi ero abituato a quel silenzio, a quell’immobilità, strana, forse, ma salutare.

Ho già il mal di testa e sono reduce da una trentina di chiamate in vari uffici della città. I lunedì, diventati durante il periodo di quarantena prolungamenti della domenica, sono tornati ad essere loro stessi. E’ giusto che la vita riparta, che l’economia torni a circolare, ma a che prezzo stiamo pagando un giro su questa giostra? Mi chiedo, mentre osservo il caos incredibile di auto e motorini in fila indiana e sento il vociare dei passanti, che con i loro toni poco gentili, non sembrano affatto felici di incontrarsi. Non mi sembra che il lockdown ci abbia cambiati poi tanto, penso, mentre sbaglio a scrivere una frase dieci volte a causa del clacson insistente di un automobilista bloccato all’uscita del parcheggio. Credo che cambierò casa, qualcosa fuori città, ho bisogno di uscire da questo traffico, da questo caos martellante che mi sbatte i neuroni come le lavandaie sbattono i cenci nella poesia del Pascoli.

Pascoli…i neuroni, ma che roba è? Come ragiona il mio cervello? Penso ancora sorridendo, mentre mi torna in mente, una cena fatta in compagnia di un  caro amico almeno venti anni fa, in un ristorante sperduto della campagna toscana che francamente non saprei ritrovare, il gallo d’oro, mi pare si chiamasse. Avevamo mangiato e bevuto tanto e dopo l’ennesimo grappino, usciti nel buio della notte, spezzato solo da qualche luce lontana, ci eravamo seduti su una panchina a parlare di poesia. Vedi, Pascoli per esempio, guardando nella campagna buia e notando quella finestra lontana illuminata avrebbe detto: toh, un lumicino, il focolare, il nido, la famiglia, chissà che cosa ci sarà nascosto in quella luce?…Ma fatte li cazzi tua! Aveva dichiarato l’amico concludendo con una fragorosa risata. Ancora sorrido, quando mi capita di raccontare la scena ai nostri comuni conoscenti.

Che poi, Pascoli a me non è neanche mai piaciuto. Ricordo che durante l’università, in un mercatino di libri usati, mi capitò tra le dita una raccolta di poesie di Olinto Dini, un suo contemporaneo minore. Lo comprai e scoprii un autore pressappoco sconosciuto, molto più bello, più espressivo, a tratti geniale, se paragonato a lui. Ve lo consiglio vivamente, se su internet riuscite a trovare qualcosa, non so se i suoi libri siano sempre ristampati. Sono quelle rarità che fanno bene al cuore, quei pensieri che se non li condividiamo tra di noi, inserendoli in quei piccoli spazi liberi della nostra vita, prima o poi andranno perduti e sarebbe un grande, un enorme peccato. Non lasciamoci invadere dai clacson, dal vociare imperterrito delle persone o da quei ritmi moderni ridondanti, lasciamoci attrarre piuttosto dal bello che è stato e che sarà creato.

 

Post-scriptum: Avevo messo un copia-incolla di una poesia di Olinto Dini qui sotto, ma l’ho tolta, perché credo che sia giusto cercare le cose piuttosto che trovarle pronte direttamente esposte davanti ai propri occhi. Dobbiamo tornare ad essere investigatori, spie, come quando andavamo a ricercare quel disco introvabile o quel libro di un autore poco noto. Anche per questo motivo il sito, nel quale siete capitati, è così scarno…qui c’è spazio solo per le parole, le immagini, sebbene essenziali, le lascio ad altri.