Ogni ultimo giorno, della nostra vita insieme, io e mio padre lo abbiamo passato seduti su una panchina di un parco non lontano da casa nostra, intenti a parlare di tutto e di niente e viceversa. C’erano i platani, quel luogo ne era pieno, e forse è li che mi sono innamorato di loro per la prima volta, della loro pelle maculata e del fruscio del loro fogliame. Mio padre, i platani, la panchina e i suoi racconti sulla nostra famiglia che si perdevano in giorni che non avevo mai vissuto, in anni in cui non ero nemmeno un’idea nella sua testa. Erano momenti incredibilmente intensi durante i quali ci perdevamo in mille discorsi, spesso interrotti da interminabili silenzi, riempiti solo dal rumore delle foglie, scosse da folate di vento più o meno forti. Il fruscio dei platani e i suoi occhi persi nel loro verde, al di là del quale, per me il cielo azzurro, per lui il buio di una notte senza fine.
Da allora è come se quegli alberi avessero assorbito parte del suo spirito, della sua essenza e quando li vedo mi sento tranquillo, a casa, protetto. È come se parte del suo essere, spinto dal vento, si fosse staccato dal suo corpo per finire su ognuna di quelle piante che a loro volta, con i loro movimenti avrebbero contribuito a ridistribuirlo tra i loro simili sparsi in ogni dove, come un sussurro trasmesso da foglia a foglia, attraverso miliardi di rami, milioni di tronchi.
Sono fortunato, la Francia è piena di platani, lunghi viali nelle grandi città si estendono accompagnati da file di questi alberi e anche molte strade di campagna si snodano al fresco dei loro rami. Forse dovrei ringraziare Napoleone che sotto il suo Impero, ne fece piantare in gran quantità su tutte le strade principali che si dipanavano in Francia e nelle zone conquistate, per permettere alle sue truppe di marciare al fresco delle loro foglie, riparandosi dalla calura del sole.
Parlando di Napoleone, mi viene da sorridere. C’è un quadro di Hyppolite Delaroche che lo ritrae a Fontainebleau subito dopo aver abdicato. In quella tela l’Imperatore somiglia in maniera impressionante a mio padre. Ovviamente tra i due c’era una rilevante differenza di altezza, almeno un metro credo, ma in quel ritratto Napoleone è seduto, quindi si nota poco. Ricordo che durante il mio primo viaggio a Parigi nel millenovecentonovantotto, dopo aver visitato il museo de l’Armée e aver visto per la prima volta il quadro di Delaroche, acquistai una cartolina sulla quale era riprodotto il celebre dipinto e la inviai a mio padre. Conoscendolo, sono sicuro che non gradì il paragone, Napoleone in quell’immagine non era certamente quello che oggi chiameremmo un bel figo, appariva incazzato e con il riporto spettinato. Ricordo che sorrise e scosse la testa quando la vide, poi la nascose in un cassetto del suo comodino, l’ho ritrovata solo quando dopo la sua morte abbiamo riordinato le sue cose e adesso, è appesa insieme ad altre foto nel mio studio.
Per tornare ai platani invece, probabilmente inconsciamente, proprio per questo loro legame etereo con lui, del quale sento tremendamente la mancanza, tendo a recarmi in luoghi dove sono presenti e là ritrovo sempre la pace del cuore. Passeggio per ore al fresco delle loro foglie, intento a riflettere su quei nostri ultimi giorni passati insieme, che nel ricordo mi appaiono tristi, malinconici, ma che nella percezione di una realtà continua senza interruzioni dovute alla morte, sono ancora là tra quei sussurri che mi giungono con il fruscio delle foglie, in un continuo, eterno, inesauribile ripetersi, in un infinito che non conosce morte.