Gli esami non finiscono mai…

Mercoledì. Ieri il dottore mi ha prescritto vari esami, tra i quali quello del sangue, che è parte di un check-up completo che si dipanerà nei prossimi giorni. Non sto male, faccio solo un tagliando generale per cercare di recuperare qualche ora in più alla morte, mantenendomi più in salute possibile. Anche se sto bene, però, gli esami mi angosciano, anzi, mi hanno sempre angosciato, probabilmente a causa della mia proverbiale ipocondria, o forse perché fin dalla più tenera età, ho avuto cognizione della morte reale, vissuta come una pressione imminente, una spada di Damocle che pende su di me ininterrottamente. Il gracchiare di un corvo nero che chiede: Adesso?

Mercoledì. Il sole ha sbattuto contro le stecche di plastica del mio avvolgibile molto presto e mi sono svegliato sudato. I sogni avevano pressoché dilapidato l’intera risorsa energetica di cui dispongo, l’ho percepito nelle contrazioni muscolari alle gambe e nel dolore alla spalla destra. Mi sono alzato e andato in bagno ho visto il mio viso riflesso nello specchio, prima e dopo il lavaggio con il sapone di Marsiglia – Perché preoccuparsi? È soltanto un esame del sangue! – mi son detto dandomi un buffetto sulla guancia. Sono tornato in cucina e mi sono preparato un caffè. Si lo so, che prima degli esami sarebbe meglio essere completamente digiuni, ma io senza almeno un caffè in corpo, non riesco nemmeno a mettere insieme una frase. L’ho bevuto tutto d’un fiato, dopodiché mi sono infilato sotto la doccia.

Un ora dopo, fresco come una rosa, ero pronto per recarmi al centro per le analisi, con indosso non solo i vestiti, ma anche quel patema d’animo tipico dell’uomo che andando a fare un esame sa, che gli verrà diagnosticata una malattia incurabile che lo trascinerà velocemente nella fossa. Sono uscito di casa e con passo calante, a tratti titubante, ho raggiunto il laboratorio. Le strade erano vuote, quasi come se la città volesse dire addio solitaria, a uno dei suoi figli adottivi. Nessuno davanti ai negozi, nessuno nei bar, poche, davvero poche persone sui marciapiedi. Raggiunto il laboratorio in quel clima surreale, tanto che mi sono chiesto se in tv non avessero per caso annunciato un nuovo lockdown, ho atteso che le porte scorrevoli in vetro satinato si aprissero e sono entrato. Al di là dei vetri, l’orrore – cazzo, ecco dove erano finiti tutti quanti! – mi son detto guardandomi intorno.

All’interno della piccola sala d’aspetto, che probabilmente non superava i venti metri quadrati, c’erano almeno sessanta persone, stipate come sardine in una scatoletta di metallo, in barba al covid e a tutte le disposizioni di contenimento, rilasciate dal Ministero della Sanità Francese. Mamme con minimo uno, massimo tre figli in braccio, coppie con carrozzine al seguito, anziani, tutti rigorosamente senza mascherina sulla bocca, piuttosto ben installata sul mento, che parlottavano tra di loro. Come un Indiana Jones quando deve entrare nella stanza dei serpenti (per chi non lo sapesse il popolare archeologo ha paura solo dei rettili), ho cominciato a camminare lentamente, con le spalle rasenti al muro e la mano appoggiata sulla mascherina, tremante, tenendomi lontano da quella massa umana in movimento, che emetteva uno strano brusio dal quale il mio cervello riusciva a estrapolare solo alcune frasi di senso compiuto: cavolo farò tardi a lavoro; certo che son lenti; io ho il bambino da portare a scuola; ma quanto cavolo ci mettono?

Appoggiata al bancone dell’accettazione una mamma con un bambino fasciato sul ventre sbraitava contro l’infermiera che l’avvisava di un mancato pagamento, vicino alla porta d’ingresso dell’ambulatorio due vecchietti quasi si prendevano a pugni tra di loro, per decidere chi sarebbe dovuto entrare prima dell’altro e poco lontano da me, una donna che diceva: Devo fare il test per il Covid. Coprendo la mano libera con un fazzolettino, dopo aver scoperto che il gel idroalcolico era terminato da almeno un secolo, ho estratto il numero ottanta e contemporaneamente ho guardato il display appeso al muro. I numeri rossi indicavano il sessanta. Velocemente sono scappato fuori da quell’inferno e appoggiato a un albero, nell’attesa che un po’ di persone uscissero, ho pianto.