La notte è calata e con lei le solite paure, che scivolano in casa lente, a tratti delicate, accompagnate dalle ombre della sera, disegnate sulle mura bianche, dalla luce moderna e artificiale dell’insegna della boulangerie sotto casa. Il caldo, che speravo svanisse con il declinarsi del sole è sempre presente, a soffocare il mio respiro già lento a causa della stanchezza per la faticosa giornata. Oltre il lavoro, gli incontri e le solite beghe, mi son chiesto svariate volte, osservando il mondo intorno a me, dove ti nascondessi. Cercandoti nelle figure distorte riflesse sui vetri sporchi, nei visi avviliti delle persone che mi circondavano, nei profumi, ti ho trovata infine, tra gli scarabocchi apparsi in mezzo a mille pensieri, sopra i quadretti del blocco notes che utilizzo per prendere appunti durante le mie riunioni. Ho intravisto parti di te, del tuo profilo, delle curve del tuo corpo, un’ombra del tuo sguardo, forse un sorriso tenue, il primo sorriso che feci nascere sul tuo volto, la prima volta che ci incontrammo.

Mi son sentito rabbrividire ripensando a quel nostro primo sfiorarsi nell’immensità dell’universo, momento che mi lasciò sognante e che mi aprì le porte per un tanto che non mi sarei mai aspettato. Momento che mi lasciò sul baratro di una notte senza confini, smantellati completamente dal mio sognarti imperterrito, come se ti stessi creando, come se stessi nascendo, alla vita, una seconda volta. Ora son qui, sul mio letto, la fronte imperlata di sudore e qualche canzone che non ascoltavo da secoli e che, chissà come, è finita tra i miei file. Sono qui, le ombre della notte a farmi compagnia, la solita paura di morire che mi accompagna ogni sera, prima di chiudere gli occhi e quel pensiero di te che mi accompagna imperterrito da secoli.

Ci baciammo poi, successivamente, quasi per caso, o forse no, quasi come se non lo volessimo, o forse si, lo volevamo, e non era un caso, non so dire. Mi chiedesti – Che cosa sogni? Che cosa vorresti? – ed io, che nella testa avevo solo te, quel tanto che basta da non riuscire a pensare a nient’altro, scossi la testa cancellando subito quella risposta banale che i miei neuroni avevano già creato e che forse ti aspettavi – Te… – optai per una più leggera e sobria – Tranquillità…

Buffo quel pensiero che analizzo adesso nel buio di questa stanza, mentre son qui, abbracciato alle mie ombre, alle mie paure, che si mostrano nella loro pienezza e sincerità, e realizzo che mai risposta fu più sbagliata, che se c’è stata una cosa che non ho mai cercato in questi primi quarant’anni della mia esistenza forse è stata proprio questa, la tranquillità. E ora che ne sento davvero l’esigenza, di fermarmi tranquillo, a godere delle immagini di una seconda parte di vita, che non preveda nient’altro che l’attesa della morte, credo di poter affermare che tutto ciò che voglio, che sogno, è che sia tu ad uccidermi, che sia tu a darmi il colpo di grazia che mi invii definitivamente all’altro mondo. Tu che più volte sei riuscita a far vacillare il mio cuore, ti meriti l’ultimo colpo, quello che mi spazzerà via dalla terra per restituirmi all’universo, dal quale ogni mia singola cellula proviene. E d’altronde, chi se non tu merita questo onore, che quel bieco, terribile mal di denti, che avevo durante il nostro primo incontro e che non ti rivelai, già all’epoca mi aveva segnalato che tu eri la mia vita, che tu sarai la mia morte.

Le ombre mi hanno definitivamente avvolto, il caldo mi affligge, fuori i rumori delle auto del venerdì sera sono l’unica manifestazione di vita umana sulla terra, fortunatamente, le voci degli sconosciuti avrebbero indubbiamente fatto scomparire questi miei pensieri di vita e di morte, racchiusi insieme nel tao dell’esistenza. Qualche pipistrello svolazza davanti la mia finestra, spero che entri in casa, che si mangi quelle zanzare che nel buio mi sento ronzare intorno – Non lo avrete il mio sangue, maledette! C’è già qualcuno che ne ha l’usufrutto…