Di Sagre, Orchestre e cieli stellati

Quando ero bambino, insieme alla mia famiglia, passavamo le estati sul Monte Amiata. Io, mia madre e i miei nonni partivamo in giugno, subito dopo la fine della scuola, mio padre invece, ci raggiungeva il primo di agosto. Avevamo una casa in mezzo al bosco, non lontano da un paesino chiamato Pescina, ma anche Seggiano, molto più grande e conosciuta, non era troppo distante. Sebbene io, mia madre e i miei nonni partissimo molto prima, ci consideravamo davvero in vacanza, solo quando arrivava mio padre. Insieme a lui, andavamo in giro per i vari borghi sparsi per la Maremma e spesso, la sera, andavamo a ballare nelle varie Sagre di paese.

Ce n’era una alla quale non mancavamo mai e che si svolgeva proprio nella vicina Pescina, era la Sagra della Scottiglia. La Scottiglia è un piatto tipico della cultura Maremmana ed è definita da alcuni un Cacciucco di carne. Qualcuno fa risalire questo piatto al Medioevo, altri pensano addirittura che sia una ricetta della cucina Etrusca. La Scottiglia è un piatto della cucina povera, che permette allo stesso tempo di consumare il pane raffermo, mangiare un po’ di carne e di conseguenza sfamare chi si siede al desco. Il suo nome deriva dalla ricetta stessa, la carne infatti viene messa in un coccio con poco olio e scottata. Per realizzarla si possono usare vari tipi di carne, a seconda che si preferisca un gusto più forte, in questo caso si utilizzerà principalmente la selvaggina: cinghiale, lepre, piccione e fagiano, o un gusto più delicato, in questo caso si utilizzeranno principalmente carni bianche e vitello. La ricetta è molto semplice, si fa scottare la carne con aglio, olio, rosmarino e salvia, si aggiunge del vino rosso e si fa evaporare. Successivamente si unisce pomodoro, prezzemolo e sedano e si fa cucinare tutto a fuoco lento, salando e pepando a proprio piacere. Si sistema del pane raffermo e abbrustolito in una zuppiera e quando la carne è cotta si adagia sopra il pane e si inzuppa il tutto col sugo che si è creato cuocendola, aggiungendo una bella spolverata di pecorino e del peperoncino se a qualcuno piace.

Ogni volta che andavamo alla sagra della Scottiglia io non riuscivo a smettere di mangiarne e due, tre piatti, scomparivano rapidamente nel mio stomaco. Ma la cosa che mi piaceva davvero di quell’evento era quello che succedeva subito dopo la cena. Alle nove, un’orchestra invitata dall’organizzazione attaccava a suonare e la musica andava avanti fino all’una di notte. I miei genitori che erano due ballerini di liscio fantastici, ovviamente non perdevano mai un ballo ed ho ancora negli occhi una notte di San Lorenzo di tanti anni fa durante la quale, probabilmente, li vidi danzare insieme per l’ultima volta, poco prima che mia madre si ammalasse.

Insieme ad alcuni amici eravamo saliti su un castagno che si sporgeva proprio sopra la pista da ballo e aspettavamo che l’orchestra incominciasse a suonare. La musica partì, i miei entrarono in pista e cominciarono a ballare, guardandosi negli occhi, innamorati, belli. Ricordo ancora la gonna lunga di mia madre che a ogni giro su sé stessa si allargava facendola somigliare a un fiore e i suoi capelli biondi sciolti, liberi al vento. Ricordo i mocassini di capretto nero di mio padre, lucidi come piacevano a lui e la sua camicia sbottonata fino al petto. Ricordo i loro sorrisi nel guardarsi e nel guardarmi, nel momento in cui si accorsero che li stavo osservando dalla cima della pianta. Quando la serata fu finita, rientrammo e ci stendemmo sull’erba, nella radura davanti all’entrata di casa, l’unico punto in cui non c’erano alberi e dal quale era possibile vedere il cielo stellato. L’obiettivo era guardare le stelle cadenti ma io mi addormentai quasi subito, in mezzo ai miei, con il braccio di mio padre sotto la testa e mia madre che mi teneva la mano, sotto quel meraviglioso cielo illuminato che ancora, dopo tanti anni, è acceso nella mia memoria. Un momento irripetibile, quello che per me oggi come allora, resta il miglior paradiso che abbia mai conosciuto da quando sono nato.