Di me passati, di me presenti…

Il giorno in cui nacque mia figlia, io non esistevo ancora, o almeno, il me di adesso non esisteva. Ce ne era un altro che a mio avviso, non era altrettanto bello, dentro intendo, l’involucro può solo invecchiare. Il giorno in cui nacque mia figlia lo ricordo bene, cominciò come un giorno qualsiasi. Mi alzai, andai in bagno, insomma, svolsi le prime incombenze della mattina, normalmente, come facevo sempre, come faccio sempre.

Sua mamma, quella che un tempo era mia moglie, improvvisamente mi chiamò mettendomi al corrente di una perdita strana. Decidemmo di fare un salto in ospedale, dare un po’ un’occhiata insomma, tanto per stare tranquilli, che con i figlioli non si sa mai niente, quando arrivano, quando partono, son sempre un’incognita. Ricordo che rivolto alla pancia dissi – Attenzione che questa casa non è un albergo! Mettiamo subito le cose in chiaro bella! – sapevamo che era una femmina, sapevamo che si chiamava Livia.

In auto, diretti verso l’ospedale, quell’auto che era appartenuta a mio padre, prima di me e che io continuavo a usare dopo la sua dipartita, per mantenere il suo ricordo vivo al mio fianco, già lo sentivo, l’arrivo del cambiamento, appena sotto la mia pelle. Ci sarebbero voluti mesi, anni interi, prima che me ne rendessi conto davvero, ma lo sentivo che stava arrivando, il cambiamento epocale.

In ospedale ci ricoverarono, tutti e tre, perché anche io non stavo molto bene e perché l’ospedale che avevamo scelto, disponeva di camere singole con bagno, letto per il padre, nursery e bagno privato, insomma meglio che stare al Principe di Piemonte, che fai non ti fermi qualche giorno?

L’infermiera all’accettazione disse che Livia sarebbe nata a breve. In realtà non era vero, le contrazioni non arrivavano e io che di parto sapevo ben poco, stavo lì come un ebete a cercar di dire qualcosa di divertente per sdrammatizzare, qualcosa che rompesse il ghiaccio, cercando di far ridere quella che una volta era mia moglie, visibilmente impaurata. Non arrivarono durante la mattina, le contrazioni intendo, non arrivarono nel primo pomeriggio e non arrivarono manco la sera, quando anche i medici, stressati dal mio dar di matto, andavo in giro per la corsia dicendo che mia figlia era peggio di Godot, decisero di provocarle.

Alle dieci di sera, quella che un tempo era mia moglie, piegata in due dal dolore, gridava come una posseduta, io per lo stress, avevo un dolore all’anca che non mi permetteva di stare seduto. Giravo intorno a lei contando il numero di contrazioni al minuto, nella vita bisogna sempre contar qualcosa, sembra che aiuti, a cosa non so, ma sembra che sia così. Ogni tanto, tra un numero e l’altro chiedevo – come va? – lei non mi mandava a quel paese solo perché in francese si usa poco, ma potevo riconoscere tra i farfugliamenti, parole molto colorite che per educazione non ripeterò qui. Un’infermiera passò – ancora non è il momento, si faccia una doccia per alleviare un po’ il dolore! – le disse, e sempre per educazione, non ripeterò quale fu la risposta di colei che all’epoca era mia moglie, quando la donna uscì dalla stanza.

Poi ci trasferirono tutti e tre in sala parto, dove le contrazioni continuarono a tormentare quella che un tempo era mia moglie, fin quando, non la drogarono con l’epidurale. All’ora si tranquillizzò, a volte sorrideva anche alle mie battute. Era un sorriso alla Sgt. Pepper lonely hearts club band, in quel momento era come se fosse a braccetto con Lucy. Attraverso la macchina di controllo delle pulsazioni cardiache, potevamo sentire il suo cuore e quello di Livia. Ogni volta che arrivavano le contrazioni il battito di Livia rallentava. È normale, ma io, che ricordo sono ipocondriaco, morivo ogni volta che succedeva. La paura che qualcosa di brutto potesse accadere stava appoggiata sulla mia spalla, come un avvoltoio.

Non successe niente di brutto, Livia nacque alle ore due, diciotto minuti e venti secondi (ora dell’ospedale). Intorno a lei c’erano due infermiere, il primario, il medico di guardia, un paio di pediatri e due tirocinanti. Era l’unico parto in atto e tutti erano entrati a vedere. C’erano più persone/per metro quadrato lì dentro che a Woodstock nel sessantanove, ma io, quello di allora, intendo, già non c’ero più, rinato in qualcos’altro, che ancora non ho capito, che forse non capirà mai.