E fu suicidio, ma nessuno lo capì. Forse fu tristezza, forse indifferenza alla vita, forse una perdita completa di fiducia nel mondo, negli altri, in sé stesso, forse un inutile e vano tentativo di vedere, anche solo per un secondo, cosa si cela dietro i tendaggi della morte, rossi, di velluto vecchio, puzzolente, polverosi.
Quanto coraggio e tristezza e male di vivere e immobilità, come quell’energia sprigionata dalla fermezza degli oggetti di pietra, delle rovine di grandi monumenti consegnati alla terra e da essa distrutti. Come calamite che si respingono, mentre si cerca di avvicinarle con insuccesso, la vita e la voglia di vivere si sono rifiutate ed è stata la morte ad aver la meglio, che il non vivere, non è contemplato, il non vivere è il vivere stesso per chi non ce la fa più.
Il sole si levò come ogni giorno, lentamente uscì da dietro le colline a illuminare nuovamente il terreno intorno a noi, ma fummo uno in meno a vederlo arrivare, colui che non ci credeva più aveva scelto una notte più lunga delle altre.
Fu suicidio perché così l’abbiamo chiamato, uccidere sé medesimo, come vorresti definirlo? E con la stessa sterilità di una definizione, così lo spieghiamo, ponendoci domande stupide, sul perché praticarlo, sui motivi per il quale qualcuno lo ha messo in atto.
Eppure spesso verrebbe da chiedersi perché, nel meraviglioso ventaglio delle opzioni offerteci dalla vita, esista anche questa possibilità. Per quale motivo, qualcosa nel momento estremo del gesto assoluto, non ferma la mano col coltello, il dito sul grilletto, il gettarsi al di là di una balaustra, il pendersi assoluto al dondolio dell’eternità?
Fu suicidio perché ci fa comodo così, gesto compiuto per assoluta responsabilità di chi lo mette in atto, che avrebbe potuto fare altre mille cose, ma ha scelto proprio quella definitiva del tirarsi indietro: non son io che ho scelto di nascere, posso smettere di vivere quando voglio.
Eppure forse e dico forse, questo vocabolo andrebbe rivisto o arricchito, perché proprio quell’uccidere sé medesimo, ci assolve da ogni responsabilità, come se dicessimo: noi con quell’atto, con quella dipartita improvvisa, non c’entriamo mica niente. E invece no, ci siamo dentro fino al collo, che cosa abbiam fatto di cosi terribile per far sì che un ragazzo di ventitré anni, che della vita non ha vissuto praticamente niente, visto l’irrisoria quantità di giorni passati, si togliesse la vita? Che cosa gli abbiamo negato? Come abbiam fatto a renderlo così scettico e disilluso nei confronti del futuro?
No, per rispetto verso chi ha il coraggio di compiere questo gesto così innaturale, definitivo, duro, con sé stesso e nei confronti della vita, almeno questo dobbiamo chiedercelo, glielo dobbiamo e ce lo dobbiamo, altrimenti la vita non può aver senso, se non facciamo questo sforzo.
Dice il poeta:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
E queste parole te le dedico giovane sconosciuto, perché forse è anche un po’ colpa mia, se sei inciampato nel tranello, se sei saltato dall’altra parte. Tu eri la prima parte del componimento, noi la seconda, tu cavallo stramazzato a terra, noi falchi alti levati, troppo lontani per accorgerci di averti lasciato indietro, troppo lontani per vedere la tua sofferenza. E non c’è perdono da chiedere e da donare, solo divina indifferenza in alternativa alla profonda sofferenza.
(Versi: Spesso il male di vivere ho incontrato – Eugenio Montale – contenuto in Ossi di Seppia, 1925).