Non ho più tempo, o meglio, ne ho sempre meno e a poco a poco, me ne innamoro sempre di più. Sono diventato egoista, possessivo, geloso, dei minuti che passano e che son passati. Credo di aver saltato il fosso, di aver attraversato il muro che separa l’illusione di una vita eterna, dalla realtà biologica che infine mi porterà a diventar carne per i vermi. Forse l’ho sempre saputo, ma col cazzo che puoi vivere un’adolescenza spensierata, se ci fai caso, o almeno, io indubbiamente non ne sarei stato capace. Vecchio dentro sì, ma da buon paraculo quale sono, solo per alcune cose, i gusti musicali, letterari, certi piaceri della carne, sessuali e mandibolari, che poi forse, a pensarci bene, sono la stessa cosa. Vecchio dentro sì, ma sempre con l’illusione del senno di prima e di poi, che il mio esserlo potesse durare in eterno. Sì, va bene, mi sono scontrato con la morte fin da piccolo, mio nonno morì una settimana prima che nascessi, facendo preservare all’interno della mia famiglia il mito che – …uno parte e un altro arriva… – ma si sa, la morte è relativa, almeno fin quando non restiamo attaccati agli ultimi giorni a noi concessi. Ho sempre meno tempo, quindi, di conseguenza, ho cominciato, piuttosto casualmente, certamente non volutamente, a gestirlo in maniera differente.
Il primo cambiamento che ho notato, è che parlo molto meno con le persone durante il giorno, soprattutto se sono impegnato a fare altro. Se devo chiamare qualcuno, preferisco farlo la sera dopo cena, in quell’attimo di tranquillità in cui svuoto il mio cervello dalle beghe giornaliere e lo riempio di qualcos’altro, una risata, una battuta, il racconto di qualcosa che non so, ricordi. Questo chiamare alla sera, a coccolare le mie membra, prima di rifugiarmi nel letto per il resto della mia notte insonne, mi ricorda molto l’inizio di: Slaughterhouse-Five; or, The Children’s Crusade: A Duty-Dance With Death (Mattatoio n. 5, 1969) di Kurt Vonnegut, tra l’altro uno dei libri più belli che siano mai stati scritti, provvedete se non ci avete ancora buttato un occhio. Nell’opera, il personaggio principale, alla sera, prende il telefono e chiama amici e conoscenze perdute, sparse per gli Stati Uniti, per raccontare e farsi raccontare come procede la vita, per farsi compagnia, per volersi bene, un po’ come faccio io, o le persone che mi chiamano.
Il secondo cambiamento che ho notato, è che evito di parlare con gli altri se il mio cervello non è in condizione, se non sono in forma, se mi sento stanco, se mi girano le palle. Una conseguenza dell’aumento del valore attribuito al proprio tempo è che si tende a valorizzare anche quello degli altri quindi, piuttosto che offrire qualcosa di scadente, tipo parlare mentre faccio altro o senza aver la forza di mantenere l’attenzione sulla conversazione, preferisco non parlare affatto e rimandare le chiamate, gli incontri.
Il terzo cambiamento che ho notato è che evito di parlare dei miei problemi, dei miei giramenti di cazzo, delle mie difficoltà, delle cose che odio, se proprio devo farlo, pago qualcuno, un buon psicologo si trova ovunque, piuttosto che trasformare la persona che ho davanti, che probabilmente ha gli stessi o più problemi di me, in un cantero all’interno del quale vomitare e pisciar via tutto ciò che non va nella mia vita, pontificando inutilmente su quanto sarei stato meglio su una spiaggia davanti all’oceano a massaggiarmi le palle, guardando l’immensa distesa d’acqua carica di romanticismi assurdi, abbandonati tra quelle onde come rifiuti di plastica, da altri milioni di individui della mia specie.
Il quarto cambiamento che ho notato, è che se cucino faccio solo quello, se scrivo idem, se sono al telefono mi dedico completamente alla persona con cui parlo, se esco con gli altri, cosa che avviene sempre più raramente a causa della mia crescente misantropia e dell’indisponibilità, dovuta soprattutto alla distanza spaziale, delle persone con cui amo passare il tempo, do tutto me stesso a coloro con cui sono fuori.
Insomma, in altre parole, la cazzata del multitasking, è qualcosa che a poco a poco ho lasciato alle spalle di una giovinezza, che tende sempre più a scomparire. Lo lascio volentieri ai grandi manager moderni, quelli che devono fare un sacco di cose per sentirsi vivi e non pensare al tempo che passa inevitabilmente, quelli che devono lasciare il segno nella storia sia essa quella mondiale o quella delle proprie tasche, a coloro per i quali i minuti probabilmente sono tutti uguali, i miei non lo sono più e sto pensando di cominciare anche, follemente, a dar loro un nome, commemorandone la morte avvenuta – …uno parte e un altro arriva… – è un mito che va sempre di moda.