Le mie mani stanno invecchiando. Le osservo appoggiate l’una sull’altra, come a coccolarsi, sorelle dai destini separati, che con l’aumentare degli anni tendono a ricongiungersi con una frequenza sempre più alta. Bianche, infreddolite, in questo giorno gelido e umido, di rughe decorate, con qualche pelo sparso qui e là, appaiono meno carnose di quando ero ragazzo. Qualche cicatrice sulle dita, tagli più o meno profondi sparsi un po’ ovunque e una bruciatura a forma di ragnatela, sul dorso della mano alla mia destra, che con il susseguirsi degli anni è quasi completamente sparita, rispetto a quando me la procurai, cadendo dalla bici a otto anni.
Potrei descriverle bene, queste mani, grandi, non senza fine come quelle di Ornella Vanoni raccontate da Gino Paoli, ma comunque capaci di afferrare un pallone da basket e tirarlo su, tenendolo ben saldo ai polpastrelli. Potrei parlarne da un punto di vista biologico, descrivendone tutte le componenti, per poi elencarne tutte le terminazioni nervose, sensoriali e motorie, che le connettono al mio cervello. Perché questo sono, parte di me, del mio corpo, sviluppatesi seguendo una ricetta genetica ben precisa, frutto di anni di evoluzione. Affascinante, ma piuttosto sterile come visione, sebbene reale almeno da un punto di vista medico-fisiologico, fisico se vogliamo, parlando di materia e particelle.
Ma a guardarle meglio, queste due adorabili vecchiette, si rivelano in quel che son da sempre, un’interfaccia tra me e il resto del mondo, parte della mia esperienza sensoriale, organo fontamentale per la mia creazione personale dell’universo. Allora la storia si fa più complessa. Così mi ricordo del primo e unico schiaffo che ho dato in tutta la mia vita, percependone ancora il frizzo sulle dita. Ricordo la sensazione di morbido, freddo, rinseccolito, provata nel toccare la pelle del cadavere di mia madre. Ricordo la pelle liscia delle guance di mio padre appena rasate, la morbidezza e il calore della testa di Livia appena nata, la plastica dello sterzo della prima auto che ho avuto e la consistenza dei capelli di mia nonna. Ricordo tante altre pelli che ho toccato e che probabilmente non toccherò mai più.
Il tatto, per me, è sempre stato uno dei sensi più importanti. Accarezzo tutto, i tasti del computer, il legno del tavolo, i tessuti degli abiti nei negozi quando acquisto qualcosa. Sono sicuro che succeda a molti di voi, sono sicuro che vi sia capitato svariate volte di far viaggiare vista e tatto a braccetto, in contemporanea, un guizzo all’occhiata, seguito dal movimento del braccio e della mano ad afferrare o toccare qualcosa. Così come sono sicuro che spesso non ci fate caso, a quanto, queste due sorelle, partners in crime, siano importanti e non solo per svolgere le azioni di tutti i giorni.
Le vedo invecchiare, anno dopo anno e questo mi angoscia ancor più dell’invecchiamento di altre parti del corpo. Le vedo perdere di agilità, diventar sempre più tristi ed ho paura che si lascino andare, che a poco a poco con il passare del tempo, si dimentichino dei loro ricordi personali, scordino le loro esplorazioni, scorribande spesso sentimentali, spedizioni senza ritorno tra qui e l’unicità di certi momenti. Ho paura all’idea che tra qualche anno, quando passerò il polpastrello del pollice su quello delle altre dita, chiudendo gli occhi, potrei non sentire più la sensazione di tutte quelle cose meravigliose che ho toccato, di tutte quelle persone che perfino le mie dita hanno amato, in uno sfiorare delicato, un tentativo di congiungimento, alleanza immateriale attraverso la materia.
Buffo che mi sia venuto in mente questo pezzo proprio durante questo periodo in cui, del toccarsi, dobbiamo fare a meno. Sarà un mio o un loro pensiero?