Ti ho sognata, mentre lentamente, attraversando il salone alla luce fioca di un abat-jour, venivi verso di me. Seduto sulla mia poltrona preferita, come destato da un’improvvisa sveglia, la testa ciondolante per il ritorno alla coscienza e un mal di testa martellante, sicuramente causato da una bottigliaccia di vino acquistata a basso costo, nel negozio di alimentari a due passi da casa mia, ti osservavo incredulo.
Tu, avvolta da un vestito a quadrettoni neri e bianchi, una scacchiera di tessuto che, serrandoti forte intorno al busto in un abbraccio di fili e rifiniture barocche, scendeva giù fino a terra, allargandosi, morbida campana, a inghiottire la parte inferiore del tuo corpo, le tue magnifiche gambe, i piedi che adoro, le scarpe e parte del pavimento. I capelli neri, tirati su in un chignon da ballerina di chissà quale spettacolo, e un ciuffetto sbarazzino, sfuggito all’attenzione della parrucchiera, che in una spirale infinita, scendeva giù fin dietro l’orecchio a solleticare con la sua punta il tuo collo bianco. Il volto, irriconoscibile al mio sguardo, assumeva la conformazione di mille visi differenti, personaggi del mio tempo, passato, presente e futuro, in un vortice di indistinta identità. La bocca si muoveva, come a parlarmi, ad annunciarmi qualcosa che non riuscivo a capire, tanto confuse erano le tue parole che sembravano provenire da numerosi linguaggi e idiomi, alcuni dei quali impossibili per me da identificare. Non capivo o forse, non volevo capire cosa mi stessi dicendo.
Ti muovevi lenta, quasi scivolavi sulle mattonelle tanto che più volte ho tentato inutilmente di alzarmi dalla poltrona per raggiungerti, per aiutarti, nel tragitto fino a me. Non potevo, nonostante la mia volontà di farlo, non riuscivo ad alzarmi dalla poltrona. Sembravo incollato ad essa. Mi hai raggiunto qualche minuto dopo, ti sei fermata proprio davanti a me. No, non era la poca luce a rendere difficile la percezione del tuo volto, esso veramente cambiava a ogni mio battito di ciglio, misterioso trasformarsi impossibile da arrestare.
Preso dallo sconforto, dal non saper chi fossi tu e nemmeno io, il corpo immobilizzato, ho sentito la paura scivolare dentro di me, riempire tutto il mio corpo, quasi fossi una bacinella che qualcuno stava ricolmando d’acqua. Il mal di testa aumentava ogni volta che cercavo di fermare, con la mente, il trasformarsi del tuo volto, ogni volta in cui tentavo invano, di darti una conformazione. Mi sono ricordato improvvisamente di quando, seduto in macchina fermo ad un semaforo rosso, nell’attesa di svoltare, cercavo di sincronizzare il tic-tac delle luci direzionali della mia auto, con l’illuminarsi di quelle dell’auto davanti a me.
Ho distolto lo sguardo, tanto quel cambiamento che avveniva in te mi angosciava e scendendo lungo il collo, ho guardato le tue meravigliose spalle scoperte, il fantastico decolleté, che quel meraviglioso vestito, scacchiera sulla quale partita a scacchi non era mai stata giocata, lasciava libero al mio sguardo. Solo allora ho notato il tuo braccio destro, si allungava verso di me e si assottigliava sempre di più, diventando un viscido tentacolo verde, sulla quale estremità, attaccato a una ventosa, appariva un gottino di vetro ripieno di liquido scuro, bicchiere sul quale era scritto: Fernet.
Ho allungato la mano, l’ho preso, quasi fossi un automa che eseguiva l’ordine di qualche oscuro comandante. L’ho bevuto tutto d’un fiato. Di Fernet si trattava, effettivamente. Poi un suono assordante, il mondo intorno a me scomparso improvvisamente all’interno del cuscino, in un vortice indistinto di colori e forme. Con le dita ho spento la sveglia sul telefono. Ho guardato le notizie, l’America non ha ancora un vincitore delle elezioni presidenziali, gran brutto guaio, mi ci vuole un Fernet, corretto a caffè.