Sole, cielo azzurro, l’aria un po’ fresca, l’erba bagnata. L’inverno sta bussando alla porta, in maniera sempre più insistente, quasi fosse un consorte geloso, venuto a scovarci in una camera d’alberghetto di periferia che ancora fa servizio ad ore, dove siam venuti a prenderci qualche momento di libertà, di piacere, di amore.

Noi, chiusi dentro, imbottiti di caffeina, nicotina e qualche pezzo di Cole Porter, lo lasciamo bussare, sincronizziamo i nostri cuori sulle frequenze di un autunno oramai bruciato, come le pareti di questa stanza, le lenzuola, il materasso e la moquette che ha perso il suo originario colore arancione, terribile, diventando materia nera, ardente, sotto i nostri passi.

L’aria appiccicosa, mielosa, ricolma di parole dette e ridette, stropicciate tra le labbra screpolate dai primi freddi, trattenute fino all’ultimo secondo tra i denti e poi rilasciate in balia del tempo, che le ha inghiotte consegnandole all’eternità, alla brevità del presente che passa e si frantuma in un passato oramai inesistente.  

Un gatto, sembri un gatto ai miei occhi, tanto ti muovi e osservi, esplorando minuziosamente il mondo intorno a te, intorno a noi. Cerchi di capire qualcosa, un gesto, un’informazione che potrebbe trapelare dalle mie dita, che si muovono nell’aria a disegnare pensieri, possibilità, opportunità d’amore. Momenti per pochi, attimi da irriducibili illusi, che si ostinano a restare nei locali fino all’ora di chiusura, nella speranza che succeda qualcosa, una svolta, un’incredibile sincronicità di eventi che potrebbero confluire in una inaspettata felicità.

Io, non so più a cosa somiglio e per dispetto, verso questa incoscienza di me, non oso nemmeno guardarmi riflesso nel grande specchio appeso alla parete di fronte al letto, complemento d’arredo voluto da qualche designer malizioso, che già intuiva il reale scopo di un hotel come questo, lontano dai confini del mondo, dai problemi giornalieri, da luoghi turistici importanti.

Eppure, in questo posto dimenticato da dio e dal fisco probabilmente, si incontrano un sacco di persone, le più strane, individui che si muovono in maniera furtiva, quasi a nascondere un orribile segreto. Coppie, di vario tipo, incredibilmente diverse l’una dall’altra, se si esclude per quel tremore della mano nel momento in cui il concierge porge le chiavi della stanza, per quella titubanza nel salire le scale che portano alle camere, ai piani superiori dell’edificio, per quell’aria misteriosa, da film di spionaggio a basso costo, almeno quanto il prezzo dell’alloggio.

Chiudo gli occhi, ascolto Cole Porter, accarezzo il tuo corpo, mi chiedo se queste pareti, in passato, abbiano mai avuto la fortuna di assistere a un momento come questo, poetico, forse. Mi chiedo chi, in questo secolo, viaggi ancora con in mano una fonovaligia, qualche disco oramai introvabile e una donna d’altri tempi come te. Me lo chiedo, mentre ti rivesti lentamente, con cura, un velo di tristezza negli occhi, uno sguardo rapido all’orologio e al telefono. Me lo chiedo disteso nudo, sul letto, mentre nell’aria si diffondono le parole di Let’s do it – And that’s why, Birds do it, bees do it, even educated fleas do it, let’s do it, let’s fall in love… – sorrido, forse piangeremo, un giorno, ma ora no, ora sorridiamo.