Sabato sera. Disteso nel letto, mia figlia che dorme già da un pezzo con la testa appoggiata su di me, guardo l’orologio, non sono nemmeno le nove. Fuori silenzio da quarantena, in casa una quiete surreale che a poco a poco, in concomitanza con il chiudersi delle palpebre di Livia si è sostituita al baccano, alle risa, alle grida. Mi rilasso, cercando di limitare i movimenti per non disturbare il suo sonno. Lei sorride, le labbra lievemente aperte, sembrerebbe tranquilla nonostante l’assurda situazione in cui ci troviamo.
Questo pomeriggio, durante la nostra ora d’aria, abbiamo deciso di andare a fare una passeggiata al parco vicino casa. C’è uno splendido lago con delle tartarughe, gli immancabili giochini e un grande prato dove spesso ci rincorriamo o dove gioca con i suoi amichetti, quando ci capita di incontrarli. Arrivati in quel luogo, che di norma è sempre molto affollato, ci siamo ritrovati da soli e sono stato colto da una strana malinconia, legata più a quello che poteva percepire Livia in quel momento, piuttosto che a me, che apprezzo quella tranquillità naturale, il cinguettio degli uccellini, il silenzio dovuto alla ridotta circolazione delle auto, la totale assenza di persone, di bambini che parlano, gridano, ridono o piangono.
L’ho guardata e non mi è sembrata triste, nemmeno felice, piuttosto indifferente, indubbiamente tranquilla – Speriamo non sviluppi un comportamento antisociale fin da subito! Che non cominci a odiare il genere umano a questa età… – mi son detto. La sua vocina ha interrotto quasi subito il corso dei miei pensieri, la richiesta di andare allo scivolo, mi ha salvato da pippe mentali sicure. Stava salendo sulle scalette dello scivolo quando mi ha detto – Non c’è nessuno nemmeno oggi…sono tutti a casa, siamo soli… – l’ho guardata – Sì… è colpa del virus… – ho risposto – Ah….il virus, non possiamo andare al ristorante perché sono chiusi, non possiamo andare in giro e non posso più giocare al parco con gli amici… – ha concluso alzando gli occhi al cielo. Il riferimento al ristorante mi ha fatto sorridere, prima del virus i sabati che passavamo assieme andavamo sempre a cena fuori, ma non avendone mai parlato prima, non pensavo che l’interruzione di quella routine l’avesse in qualche modo colpita. L’ho presa in braccio, aiutandola a scendere da una rete sulla quale si era arrampicata velocemente – Non preoccuparti, questa situazione finirà e presto il virus non sarà più un problema! – lei ha scosso la testa – Noo, il virus non sparirà mai, va e viene, va via e poi torna…non se ne andrà proprio mai… – l’ho guardata e nel silenzio ho pensato che ne sa più lei a quattro anni di molta gente che conosco.
Adesso nel silenzio del mio appartamento, disteso nel letto alle nove di sera, rifletto su quello che ha detto, provo a immaginare che cosa succederebbe se da ora in poi il genere umano si trovasse a dover affrontare ad oltranza situazioni di questo tipo. Rabbrividisco al pensiero di una sua giovinezza vuota, privata di tutte le normali routine della crescita, mi angoscio al pensiero di una mia vecchiaia a queste condizioni.
Scuoto la testa, nemmeno dieci anni fa, a quest’ora, mi stavo preparando per andare a ballare, oggi sono nel letto, stanco morto, a perdermi in pensieri apocalittici e catastrofici. Son cresciuto con la febbre del sabato sera e mi ritrovo nel Covid del sabato sera.