Tulipani freschi sul tavolo. Rosa, bianchi, rossi e arancioni, immobili, spuntano da un vaso in ceramica color indaco, sembrano osservarmi. Li fisso, un bicchiere di champagne, preludio ai brindisi di domani sera, stretto nella mano, mentre disteso sul divano, perso nei miei pensieri, ascolto musica jazz.
La luce del sole scompare a poco a poco, il buio, tra qualche ora, spingerà lentamente l’angoscia serale su di me, a schiacciare il mio petto, a soffocare il mio respiro, a uccidermi per l’ennesima volta. Domattina risorgerò, dopo una morte lunga poche ore, ma ora no, ora è il momento di lasciarsi andare, di perire, vittima del peso degli anni scomparsi in sordina, vittima degli errori che ancora adesso ho difficoltà a perdonarmi.
Ogni Natale è così, un ostacolo che eviterei volentieri, un film che farei a meno di guardare e che invece, come un personaggio di Kubrickiana memoria, gli occhi aperti, legato a una sedia davanti a uno schermo gigante, sono costretto a vedere e rivedere, in un circolo vizioso infinito pieno di: – Avrei voluto… – oppure – Avrei potuto… – o ancora – e se fossi. Supposizioni per noi che immancabilmente continuiamo a scivolare nella spirale dei ricordi, nella delicatezza di un passato che sembra sempre migliore di quello che è stato veramente.
Un petalo di tulipano cade. Lentamente si stacca dal bocciolo e finisce sul tavolino da tè. Regali della natura e della forza di gravità. Sì, gravità ovunque, nel mondo reale così come nei ricordi, che piombano giù come una pioggia di meteoriti, sulla mia testa. Colpito miliardi di volte, cerco di ripararmi nei periodi migliori della mia vita, trovo conforto in una cena con mio padre, in un ballo con mia madre, nei milioni di baci dati e e ricevuti, in quell’amore che ho sempre cercato, che spesso ho trovato e che altrettanto spesso ho perduto.
Afferro la bottiglia di Canard-Duchène e la porto alla bocca – se davvero si deve brindare, che si brindi a modo! – mi dico, cominciando a bere senza interruzione. Il vinile mi propone Duke Ellington e mentre lo ascolto, ti vedo apparire, sogno di donna desiderata e mai trovata, ti materializzi di fronte a me e non so cosa pensare. Sei talmente reale che è impossibile per me dire se sto sognando o se sono sveglio, se è colpa dell’alcool, se sei un fantasma oppure uno spirito. A bocca aperta continuo a fissarti, come facevo qualche minuto fa con i tulipani.
Non ho il coraggio di chiudere gli occhi, la paura di smarrire la visione desiderata è talmente tanta, che mi obbligo a tenerli spalancati. In piedi, completamente nuda di fronte a me, nella tua bellezza senza tempo, nel tuo essere così magnifica, prima e ultima donna, primo e unico sogno infinito, non ti muovi, non proferisci verbo, mi osservi e sorridi.
In quel mio fissarti, gli occhi aperti sul baratro spazio-temporale dell’esistenza, mi perdo in te e tu ti perdi in me, un abbraccio estemporaneo, amore e dolore infiniti, qualcosa che non ha definizione, tanto le parole appaiono limitate al suo cospetto, vetri resi logori dal tempo, attraverso i quali è quasi impossibile vedere.
Impazzisco così, in questa vigilia di vigilia natalizia, impazzisco e ne sono felice. Chiudo gli occhi e nel riaprirli non ti trovo più, sei scomparsa o forse non sei mai esistita, chi può dirlo. Bevo ancora, sorrido, i tulipani continuano ad osservarmi, il buio ha invaso il salone. Accendo qualche candela a illuminare la mia pazzia, mi avvicino al giradischi e metto su la Rapsodia in blu di Gershwin, stappo un’altra bottiglia, torno a distendermi sul divano aspettando che arrivi domani o in alternativa, che qualcuno cominci a darmi del matto.