Visitai i campi di sterminio ventiquattro anni fa e di essi possiedo ancora vivida memoria, non tanto legata alle numerose fotografie in bianco e nero che scattai all’epoca e che conservo ancora in un album inghiottito dalla mia libreria e mai più aperto, piuttosto associata a una sensazione strana, che mi avvolse numerose volte durante quel viaggio attraverso la Germania e la Polonia, sensazione che fortunatamente, non ho mai più provato.
È difficile da definire quello strano e terribile stato d’animo, che affiorava in me ogni qualvolta mi allontanavo dai miei compagni di studi. Fu un brivido lieve, una carezza, una mano invisibile appoggiata sulla spalla. Fu un soffio leggero, quasi impercettibile, carico di parole appena sussurrate ma che si distinguevano bene da quelle pronunciate dagli altri visitatori. Fu quella tristezza che giunge all’improvviso, inspiegabile, indefinita, carica di malinconia e sofferenza. Fu il tutto e il niente, un pulviscolo indefinito, presenze e assenze, l’adesso e l’allora, il tempo collassato su se stesso a eterna memoria di ogni minuto, vissuto e vissuto ancora, quasi fosse presente infinito.
Così in me, in quei giorni, si solidificò l’idea assurda, di uno sterminio iniziato e mai finito, di un continuo bruciare uomini e idee, un circolo vizioso eterno, un girone dell’inferno dislocato sulla terra, o la terra come centro dell’inferno stesso, se preferite. Così in me, da allora, rivive ogni anno, in questo giorno, o più in generale quando assisto a episodi di violenza e razzismo, l’angoscia di provare ancora quella sensazione, terrore che mi stringe alla gola che mi soffoca.
Suggestione, potrebbe chiamarla qualcuno, potrebbe definirla il mio lato più scientifico, ma a me una definizione non basta, che un monumento alla memoria, un giorno della memoria, non si possono limitare ad essere semplice simbolo, ricordo di qualcosa che è stato e non deve ripetersi mai più, devono piuttosto rompere la metafora del messaggio, andare al di là del tempo e dello spazio, sgretolare il vissuto soggettivo di ogni individuo, per trasportarlo là, in quei luoghi non luoghi, all’interno di quei forni crematori, nelle cave, sui bordi delle fosse comuni, perché sentendo il respiro di coloro che furono e non sono più, ognuno arrivi a distinguere quelle deboli parole sussurrate dal vento: morte, non vincerai.