Chicago, un periodo di tempo lungo circa quattro anni, forse il capitolo più duro della mia esistenza sulla terra, quello più intenso, per tutta una serie di motivi e situazioni che non starò a spiegare, e che dipanandosi nella mia vita, scivolando sulla mia pelle, l’hanno marcata in maniera indelebile, eletta a loro nuova dimora. Tatuaggi bellissimi, ferite non ancora rimarginate, bruciature, zecche portatrici di ogni genere di malattia e infezioni, bestie e segni, sparsi un po’ ovunque, su tutto il mio corpo.
Quattro anni meravigliosi e terribili, quattro anni impossibili da raccontare in qualche riga intrisa di parole, se non riassumendoli dicendo che abitavo in un appartamento al quarantesimo piano di un grattacielo e che da lì osservavo il mondo, e lui osservava me, con tutti i pro e i contro del caso, con tutte le gioie e i dolori del dovuto e del concesso, con tutti i pegni da pagare e i crediti da riscuotere tipici di una persona che ha vissuto una vita come la mia.
Quattro anni, che ancora non sono riuscito a sviscerare completamente, ai quali oltre alle gioie, ma soprattutto ai dolori, all’esperienza, ai ricordi distorti, devo un sogno ricorrente, che faccio nelle notti più cupe, quelle più angoscianti, quelle che magari, il suicidio del corpo non è contemplato, ma quello della mente sì, impiccagione del pensiero, soffocamento dei ragionamenti, grida strozzate da una canna di fucile infilata tra le labbra, un dito a premere sul grilletto, una pallottola a frantumare ogni tipo di immagine che risale in superficie, nel presente fatto di memoria.
Un sogno terribile nel quale appaio in piedi, sul davanzale di una finestra dell’appartamento al quarantesimo piano. Da lì, osservo il lago Michigan che si colora di rosso sangue, nel momento in cui sorge il sole all’orizzonte, e a quella vista meravigliosa, breve frammento spazio-temporale paradisiaco, scivolato chissà come sulla terra, chiudo le palpebre, ombre rosse e blu impresse sulla pelle scesa a impedire l’impatto dei fotoni sulla retina, e lasciando che le mani si aprano, staccandosi dagli stipiti della finestra, mi lancio nel vuoto. Cado giù e mi rendo conto, quasi istantaneamente, che la velocità di discesa non è quella che dovrebbe essere. Scivolo verso terra lentamente e colto dallo stupore, da una strana e incomprensibile malinconia, apro gli occhi. Il mio sguardo è rivolto verso il palazzo, dentro ad ogni finestra che mi passa davanti vedo immagini di me, delle vicende passate, presenti e forse future della mia vita. Sono frame, passaggi talmente veloci che sembrano statici e che, uno dietro l’altro, si susseguono in un tempo che percepisco come estremamente dilatato, lunghissimo. Improvvisamente, mi sfracello a terra e il palazzo frana, sopra di me. Siamo esseri fragili e di fragilità composti, non c’è niente da fare.