Nel momento in cui veniamo al mondo, cioé quando il processo di fecondazione inizia e si propaga senza sosta, nell’universo siamo solo miliardi di cellule, mentre per coloro che hanno dato il via alla creazione, il padre e la madre, siamo un segreto, almeno fino al secondo mese, poi una speranza, meraviglioso se pensiamo che, in molti casi, prima siamo stati un sogno. Un sogno, divenuto segreto da custodire per poi trasformarsi in speranza, non esiste cosa più poetica. Poi nasciamo, diventiamo felicità di un piccolo nucleo di persone, agglomerati di cellule molto simili alle nostre, che prima di noi sono venute al mondo. Certo, non è sempre così, a volte, il processo inizia in modo diverso, la fecondazione non è voluta, può essere un errore, una distrazione, il risultato di una violenza. Sulla terra si hanno ogni giorni milioni di rapporti sessuali, le situazioni possono essere molteplici, impossibili da quantificare e da riassumere. Concentriamoci sulla nascita però, perché se già la fecondazione nasconde tutte queste molteplici sfaccettature, figuriamoci cosa succede quando usciamo dal ventre materno.
Nel momento in cui nasciamo, il nostro essere in quanto tale si sdoppia letteralmente in due, la nostra componente, per così dire biologica e quella sociale, entrambe per noi, sostegno e prigione allo stesso tempo. In quanto organismi biologici abbiamo poche regole fondamentali da rispettare, per garantirci una permanenza più o meno lunga sulla terra. In quanto organismi biologici, la nostra vita, se la guardiamo oggettivamente, sembrerebbe pressoché inutile, mero contributo alla vita dell’universo stesso, occhio, non della società, di cui facciamo parte. Che poi anche qui, si potrebbero scrivere fiumi di parole su quanto sia appagante realizzare, che siamo parte integrante e che contribuiamo alla vita di questo fantastico universo, ma andiamo oltre. In quanto esseri sociali, facenti parte di una struttura definita da coloro che ci somigliano, che sono venuti prima di noi, e che, perché no, alla fine ci hanno dato la vita, invece, abbiamo centinaia di obblighi, miliardi di regole.
Infatti, se da un lato, per quanto riguarda la componente biologica, tutto avviene naturalmente, dall’altro per la componente sociale, siamo polvere. I genitori ci raccolgono e ci amalgamano con gli strumenti e il sapere che hanno integrato. Pastella inerme, cominciamo ad essere lavorati anche dalla scuola, dalle informazioni, da internet (negli ultimi anni), fin quando non siamo pronti ad essere cotti all’interno degli altoforni, le nostre prime esperienze, la maturità. Mattoni pronti da aggiungere al muro sociale costruito dai nostri antenati.
Da qui il nostro ragionamento potrebbe scivolare in mille direzioni, si potrebbe discutere di etica, di politica, di tutto insomma, ma poiché due giorni fa abbiamo parlato di quel gran figaccione di Camus e poiché stamattina ho letto sul giornale dell’ennesimo caso di omicidio-suicidio da parte di un padre nei confronti della sua famiglia, voglio proporvi invece quella che per Albert è stata la domanda chiave, la scintilla che ha generato tutta la sua meravigliosa produzione filosofica e letteraria. Cito: Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia.
È a questo punto che dobbiamo scardinare completamente questa frase, smontarne le parole, capire di quale vita stiamo parlando. Camus si riferisce alla vita biologica, ovvero se valga veramente la pena nascere e essere parte di questo universo, o sta parlando della vita che percepiamo come reale, ma che in realtà è un mero costrutto all’interno di un tessuto sociale, preconfezionato da coloro che sono nati prima di noi, nel quale ci troviamo forzatamente a muoverci con tutti i pro e i contro della cosa?
Partendo da questo punto, ci rendiamo chiaramente conto che, la maggior parte dei suicidi ai quali assistiamo, avvengono più per problemi di tipo sociale che biologico, questo è un dato di fatto. Quindi, sebbene il quesito resti, nel caso si parli di eutanasia per esempio o di certi mali di vivere che a volte possono prender spazio nei nostri pensieri, in molti casi la domanda del buon Camus si evolve in maniera diversa: È normale che il modo in cui la nostra società è strutturata, spinga alcuni degli individui che ne fanno parte a commettere il delitto dei delitti, rinunciare alla propria vita biologica e in casi ben peggiori privare anche altri della stessa? Si può veramente parlare di rinuncia alla vita? Chiediamocelo per favore, domandiamoci se ci stiamo muovendo nella giusta direzione ed eventualmente cerchiamo tutti insieme di virare la nave verso altri lidi. Chiediamocelo per un minuto, oggi, cerchiamo di imparare dagli errori e soprattutto non abbiamo la paura di realizzare, che a premere quel grilletto questa mattina, in quella casa, c’eravamo in parecchi.