Un posto in cui perdermi, questo cerco, un labirinto inesistente costruito al di fuori della mia mente, distante dai miei pensieri, in un mondo parallelo a quello che mi vede esistere. Una porticina o una bella tenda in velluto, da aprire, per accedere a un luogo lontano all’interno del quale smarrirmi dolcemente, dimenticando paure, problemi e quant’altro aggiunge miseria alla vita di questi giorni. A questo penso, mentre bevendo il primo caffè della giornata, osservo la parete di fronte a me e immagino un quadro da appendere, un disegno, qualcosa che frantumi l’omogeneità di quel muro troppo bianco, troppo luminoso, perfino questa mattina, in cui il cielo azzurro non si è svegliato e i nuvoloni neri hanno prolungato la notte di qualche ora. Fa freddo.
Mi hai lasciato così, cinque euro e un orologio da polso appoggiati sul tavolino da tè, vicini ad un post-it arancione con su scritto – Questo come rimborso spese… – mi hai lasciato così, nel silenzio delle ore più pigre, quelle fatte di calore e lenzuola e coperte pesanti, quelle ripiene degli ultimi sogni del mattino, sfumati nell’odore forte che proviene dalla bocca dello stomaco, nel viso impiastricciato, nei capelli arruffati, aggrappati l’uno all’altro, nodi impossibili da sciogliere. Guardo l’orologio, le sette non sono ancora arrivate, se questo significa ancora qualcosa – le sette di che? – mi chiedo, bevendo un altro sorso di caffè, il muro bianco a guardarmi con aria di sfida e pensieri che scivolano via in altri luoghi, in altri mondi, in altri tempi.
Ho bisogno di un posto in cui perdermi, ma un quadro, in alternativa, potrebbe andare bene lo stesso. Una di quelle opere introspettive all’interno delle quali, ci si può smarrire in mille pensieri e si possono raggiungere dimensioni parallele sconosciute a chiunque, perfino all’autore. Schizzi su tela a ingravidare l’immaginazione dell’osservatore, uno stupro cerebrale violento in seguito al quale, sogni, incubi, orrori, perversioni, desideri, appaiono magicamente davanti a lui, in una danza erotica e macabra, angosciante e invitante allo stesso tempo. Parto mentale generato dalla lussuria di una pennellata di colore, a penetrare il bianco della tela, la sua perfezione omogenea, piatta, noiosa, assassina.
Bevo un altro sorso di caffè nel silenzio del mattino, guardo il post-it, ascolto il cuore che batte, penso ai labirinti, al perdersi in altri mondi per non ritrovarsi mai più, ad alcuni quadri che stuzzicano le mie perversioni più nascoste. Roteo l’indice sinistro nell’aria a creare cerchi inesistenti, portali verso altre dimensioni, il mio sguardo che si sposta dal post-it alla parete e viceversa. Lentamente, quel suo candido biancore, accende in me una forte rabbia, alimentata dalla percezione della sua perfezione.
Stringo la tazza nel palmo della mano, i fondi del caffè galleggiano in un’acquetta scura poco invitante. Chiudo gli occhi, carico il braccio e la lascio andare. Per qualche secondo l’oggetto, fluttua magicamente nel vuoto. Il suo colore rosso fuoco si allunga, riempiendo la distanza che separa le mie dita dal muro, seguendo una traiettoria lievemente curva. Un rumore sordo, frantumi che schizzano ovunque, il mio sguardo curioso a cercar di percepire le loro direzioni, e sul muro, una macchia di caffè, forma strana di rorschachiana memoria a segnalare il luogo dell’impatto, sono l’epilogo del suo breve volo.
Osservo la macchia, ci percepisco nell’ordine: una donna nuda, un pesce, un albero di pere, una papera, un vaso di azalee, un salice piangente, un topo, una scimmia, un piatto di spaghetti alla matriciana, un’auto, un mazzo di margherite, una bambola di porcellana, un corvo e il tuo volto, che estendendosi da qui all’infinito, si fa memoria e si perde in qualche luogo di questo universo, che spero di non visitare mai.