Un salto e un anno è passato. Guardo indietro, questi ultimi dodici mesi sono volati, o meglio, naufragati, in un mare di progetti ancora in corso, zattera di profughi che si sta dirigendo verso lidi ancora inesplorati, paradisi terrestri, esotici, al di là dell’immaginazione umana. Dodici mesi evaporati, tra un respiro e l’altro, così come i precedenti trentanove anni, che manco mi sono accorto di aver vissuto. 

Mi sento appena nato, bebè uscito fuori dal ventre della madre da qualche minuto, impegnato a piangere, a urlare, a cercar qualcosa di cui non sa, impaurito, sporco, ignorante, impreparato al futuro che velocemente arriva e si schianta davanti ai suoi sensi, come un treno contro un muro. 

Non capisco l’utilità di festeggiare un compleanno, un anno in meno tra me e la morte, figuriamoci il trentuno dicembre. Tuttavia mi piace approfittarne per bere, tanto, e non colpevolizzarmi, facendo finta di festeggiare il fatto che continuo a spuntarla, a viver la vita che mi è stata donata, in questo pezzo di universo, che mi ostino ad abitare. Cose così, sogni, rimproveri, negligenze, rimpianti, gioie, dolori, speranze, voglie inconfessabili e tanto altro ciarpame ammucchiato nella soffitta del mio vissuto soggettivo, inscatolato, stipato in valigie che forse un giorno troverò il coraggio di aprire.

Comincia il duemilaventuno ed io che ho passato venti anni nel novecento e venti nel duemila, mi sento spaccato in due e non mi riconosco più in nessuna delle due visioni, in nessuna delle due epoche, la parola d’ordine è dissociazione, o più precisamente, sdoppiamento del pensiero, se davvero può avere un senso definirlo così.

Sdoppiamento, ci ho pensato questa mattina, quando, aprendo l’antologia completa di Shakespeare in lingua originale e cominciando a leggere: The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, mi sono accorto di aver qualche difficoltà a mettere a fuoco le lettere.

Probabilmente ho bisogno di modificare il mio paio di occhiali e questa cosa mi fa paura. Non provo angoscia alcuna per la morte, temo invece, la perdita della vista in vita. L’idea di non poter più vedere, di non riuscire più a leggere, soprattutto, mi spaventa. 

Scuoto la testa, meglio non pensarci, vado a farmi una doccia, mentre camminando in direzione del bagno faccio attenzione e schivo i cadaveri delle bottiglie vuote, dispersi qua e là nella stanza, resti più che evidenti delle feste appena passate, dei timori che vivo, ogni momento.

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