Semplice, il venerdì è quel giorno che odio, quella transizione tra la settimana e i weekend vuoti di questa pandemia, porta dell’inferno, del: lasciate ogni speranza o voi ch’intrate, affacciata sulle prossime quarantotto ore, che mi vedranno come sempre alla ricerca di qualcosa di bello da annotare sui miei quaderni, sui fogli word, su questa pagina, esplorazione che mi costerà il doppio della fatica, un dispendio di energie immane. Niente da aggiungere, a volte è così.
Mi attacco alle urla dei vicini, che anche in questo momento, come da programma giornaliero, stanno litigando. Sposati da pochi mesi sono già ai coltelli, viene da pensare che non c’è limite alle sofferenze che spesso noi umani ci infliggiamo, scelte masochiste terribili che si trasformano rapidamente in disfatte degne di epopee o tragedie classiche di prim’ordine.
Ovviamente anche io, come del resto tutti quanti, finisco spesso per cadere in seguito a scivoloni di questo tipo. Penso per esempio al mio matrimonio, cinque anni di relazione oramai conclusi da più di cinque anni, i colori rossi della disfatta che cominciano a sbiadirsi soltanto adesso, con tutti i pro del caso, i contro li abbiamo già vissuti precedentemente.
E dire che l’universo te li manda i segnali, ti avvisa, una, dieci, cento, mille volte, solo che noi, troppo spesso siamo ammaliati da altro, distratti, occupati a varcare altre soglie infernali, non meno preoccupanti, ma certamente meno pericolose, meno incisive. Non so quali messaggi, l’universo abbia mandato al mio vicino, ma se già dopo un soffio di matrimonio si palesano offese urlate contro finestre aperte sul mondo, atte ad informare i concittadini e gli ignari vicini, di quanto il proprio partner sia un’insulto all’evoluzione stessa del genere umano, o i segnali sono stati deboli o i diretti interessati sono stati molto disattenti.
Io per esempio, in passato, sono stato molto distratto e i segnali universali non li ho proprio visti. Incontrai per la prima volta la mia ex moglie su un autobus, eravamo entrambi diretti in ufficio, lavoravamo nello stesso posto. In quell’occasione ci guardammo, ci sorridemmo e probabilmente io mi innamorai proprio in quel momento, colpito dal suo sguardo timido, dalla sua aria così tipicamente francese. Fantasmi di miti passati, di icone conturbanti cinematografiche e musicali, salirono sul mezzo pubblico qualche minuto dopo, mi presero per mano e mi condussero verso il patibolo. Io, straniero, trasferitomi di recente oltralpe, caduto subito nel tranello dei tranelli, la mia fine era già stata decretata dopo quei primi sguardi.
Ricordo che lei stava leggendo un libro e che ne rimasi colpito – Wow…legge pure Victor Hugo… – pensai, credendo di esser finito in uno di quei film della nouvelle vague, un qualche lavoro di Truffaut sconosciuto ai più. Quel giorno neanche mi soffermai sul titolo del volume, oggi lo faccio in onore dei miei vicini distratti, perché quel libro che lei teneva delicatamente tra le dita e che leggeva con tanto interesse, tra le mille occhiate che ci dedicavamo l’un l’altra era Le dernier jour d’un condamné (L’ultimo giorno di un condannato a morte, 1829).