C’è qualcosa di meraviglioso nell’osservare Livia pattinare sul ghiaccio. Traballa, scivola, cade, si muove a tentoni, si rialza e poi riparte, cade di nuovo, si muove a gattoni e si rimette in piedi. Ci ha osservati mentre io e la madre la guardavamo appoggiati alla balaustra e non ha potuto fare a meno di cadere, ma non ha pianto. Sta crescendo, sta crescendo velocemente e da quando è nata gli anni stanno volando perfino per me, anche se non so dove stiano andando – Dei dell’universo fate che non diventi una fissata del pattinaggio e che debba ritrovarmi a vedere centinaia di volte quella cagata di holiday on ice! – penso.
Nel momento in cui si è voltata e mi ha guardato, durante una delle sue prime lezioni di pattinaggio sul ghiaccio, mi sono ricordato di quando, alla prima lezione del corso di piscina, i miei, entrambi seduti sui gradini della tribuna, mi guardavano felici. Un attimo prima ero in acqua e stavo seguendo quello che diceva l’istruttore, quello successivo voltandomi e vedendoli, entrambi con il sorriso stampato sul volto, per poco non affogavo per l’emozione. Ancora sorrido se ci ripenso.
Crescere è una maledizione, invecchiando si accumulano tutti questi cazzo di ricordi dai quali poi non riusciamo a staccarci per tutta la vita. Loro si sommano l’uno sull’altro e ci condizionano nelle nostre scelte, a volte senza nemmeno che ce ne accorgiamo. I ricordi sono una fottuta maledizione, o almeno, io li percepisco come tali, forse perché molti di quelli che possiedo sono di una tristezza allucinante o più probabilmente perché ne ho tremendamente paura, non so.
Le risa dei bambini mi riportano al presente, i loro pattini che scivolano sul ghiaccio fanno uno strano rumore, quelle lame che scintillano alla luce dei riflettori mentre scivolano lineari, tagliano in due la mia coscienza e quello che ne fuoriesce, insieme al sangue che scorre nelle mie vene è un po’ di felicità. La felicità di vedere mia figlia sorridere, la felicità delle risa di quei nanetti imbacuccati che cercano di farsi spazio nel mondo in mille modi diversi, dal momento in cui aprono gli occhi al mattino a quando si spengono nei loro letti, esausti.
C’è fresco qui dentro in questo palasport, un frescolino pungente, simile a quelle sere tra autunno e inverno, quelle in cui possiamo ancora uscire con un giubbotto leggero, nonostante alcuni spifferi lascino passare folate di vento freddo. La musica è troppo alta – Chissà dove la trovano della musica brutta così… – mi chiedo scuotendo la testa. Chiudo gli occhi e li riapro – Ma non sarebbe più dolce, più delicato, scivolare sulle note di qualche meraviglioso brano di musica classica? su Mahler o Mozart oppure, se proprio non si vuol essere così intellettuali, mettere qualche pezzo di Aznavour, di Jacques Brel, di Edit Piaf, così i bambini oltre ad allenare il corpo, allenerebbero anche l’orecchio, il cervello! Che roba è quest’accozzaglia di note musicali accompagnate da voci incomprensibili? Perché molti dei cantanti contemporanei oltre a mangiarsi le note, si mangiano le parole e non si capisce niente di quello che dicono? E soprattutto, perché chi organizza questo genere di attività non sceglie della musica migliore? – penso ancora.
La palla da discoteca anni settanta invece è meravigliosa, enorme nel suo eterno girare su sé stessa, lancia miriadi di riflessi tutt’intorno. Un bambino cerca di afferrarli, di camminarci sopra, di fare suo quell’ammasso di fotoni che riflettendosi nei vetrini scivolano giù, sul ghiaccio. Non ci riesce, cade disperato, piange – Regola numero uno del gioco della vita caro bambino, non si può avere tutto… – passiamo alla seconda lezione.