C’era qualcosa che non riuscivo a percepire nel tuo vissuto, qualcosa che avrei voluto capire ma che restava sospeso sul baratro del niente, tra me e quella parte di universo al quale la mia coscienza non aveva e tutt’ora non ha accesso. Eppure, ricordo che ci provai con tutte le mie forze a interpretare quei silenzi, quelle tue eclissi che vivevo come terribili, angoscianti, ma che per te, probabilmente, erano del tutto normali.
Seduta sul divano, ti osservai di nascosto, le gambe accavallate, lo sguardo perso sul lavoro a maglia, chiedendomi a cosa pensassi, mentre con movimenti delle dita veloci, nervosi, quasi impercettibili, intrecciavi un lungo filo di lana che da un lato terminava in un maglione verde in evoluzione, dall’altro si perdeva in un gomitolo grande quanto una mela. Ricordo che più volte cercai di seguire quel filo, di capire in qual senso si avvolgesse a formare quella pallina, con la quale, il gatto, si ostinava a voler giocare, nonostante il tuo dissenso.
Il camino acceso, il fuoco, le piastrelle in cotto che si allontanavano da me per giungere a te, reticolo in muratura, sorta di gabbia che ci imprigionava in un equilibrio statico, reso dinamico solo dall’ondeggiare delle fiamme gialle a tratti rosse, poi di nuovo gialle. Silenzio e crepitio e sferruzzare e poi di nuovo silenzio, i miei occhi che ballavano tra le parole allineate di un libro, per poi tornare a posarsi su di te, seduta chissà dove, in quale parte di questo universo, cullata da pensieri inimmaginabili per me.
In lontananza un rumore meccanico, ripetitivo, ossessivo, proveniva dalla parte buia della casa, quella che la sera frequentavamo di meno e rompeva quell’equilibrio statico tra di noi, quel legame intenso creatosi tra il movimento delle tue dita e quello dei miei occhi. La televisione spenta appesa alla parete, sembrava risucchiare una parte di noi e del nostro mondo, angosciante, nera, lanciava messaggi ipnotici, quasi a supplicarci di accenderla, di darle la vita.
Continuai a osservarti, il mio voler capire cosa si nascondesse dietro il tuo viso, dietro quegli occhi che conoscevo, divenne minuto dopo minuto una priorità – Pensi a me? A noi? A questo nostro mondo così assurdo? Mi detesti? Oppure mi ami? – mi chiesi, nella disperazione del momento, nell’angoscia che accompagnava le mille domande, nella frustrazione di un momento topico che tardava ad arrivare, che non arrivò mai, come un film del quale attendi per ore un climax che il regista non ha previsto, due ore di tensione pressoché inutili e poi la parola fine.
Desiderai ardentemente che la natura ti avesse fornito del dono della telepatia, desiderai che tu potessi leggermi nel pensiero in quel momento e così, di punto in bianco, potessi rispondere alle mie domande, rassicurandomi o distruggendomi, l’esito non mi interessava, quel che volevo era soltanto una riduzione della tensione.
Un beep lontano, lieve, freddo, precedette il tuo sguardo che da basso, orientato verso il lavoro a maglia, si alzò ed incrociò i miei occhi, intenti ancora a interrogarti, persi nell’osservarti. Mi chiesi se avrei finalmente ricevuto una risposta a tutte le mie domande quando schiudesti le labbra lentamente e dicesti – La stendi tu la lavatrice stasera?