Era il ventotto di settembre del quindicesimo anno di questo nuovo secolo e passati due giorni saresti morto. Lo sapevamo entrambi che sarebbe successo, tu ed io, che dividevamo oramai da mesi, silenzi lunghi quanto la nostra esistenza insieme. Avremmo potuto parlare di tutto in quelle lunghe giornate, di sesso, di donne, di amore, di vita, di viaggi, di film, di musica, ma sceglievamo il silenzio, e ricordo che pensai che anche quel giorno le cose non sarebbero andate diversamente. Quella mattina, ventotto di settembre, quando improvvisamente, per la fatica, non riuscisti ad alzarti dal letto per andare in bagno, mi chinai su di te e ti presi in braccio.
Eccolo il paradosso del quante volte mi avevi preso in braccio tu, dell’unica in cui ti avrei preso in braccio io, quei centodieci chili distribuiti per più di due metri di altezza, diventati improvvisamente meno di cinquanta. Due pesi, due misure, dimensioni che si trasformano, che cambiano, miraggi, imperfezioni, illusioni. Le nostre vite, un quadro di Escher, una canzone di Tom Waits, la più biascicata. Tutto il tempo della storia, l’infinito presente, reso tale dal respiro di un corpo in vita, rinchiuso in una stanzetta al primo piano di una casa, in una via anonima quanto la cittadina che la conteneva. Fuori la campagna, l’Arno, le colline di ulivi, e poi via lungo chilometri e chilometri fino al mare. Tutto lo spazio dell’universo, infinito forse anch’esso, rinchiuso in una stanzetta al primo piano di una casa ai confini del tempo, spersa chissà dove, in un pixel dimensionale.
Mi guardasti, come un condannato a morte guarda il plotone e individua l’unico soldato che ha paura, fissandolo, sperando che almeno lui, quella pallottola in canna la spari da un’altra parte. Mi guardasti e fu come se i tuoi occhi riuscissero a oltrepassare la materialità della mia carne, delle mie ossa, di quest’ammasso di roba che ogni giorno mi porto a presso. Mi guardasti e mi chiedesti scusa, ed io non capii di cosa ti stessi scusando, se del passato, del presente o del futuro non ancora venuto, o tutti e tre insieme, che sei sempre stato uno attaccato alla propria storia, fermo sul proprio presente, con un occhio vigile puntato verso il futuro.
Mi afferrasti al collo e all’orecchio mi sussurrasti – Non doveva andare così, guarda cosa sei costretto a fare… – scossi la testa e non trovai parole migliori da dire – È un onore… – risposi. Anni e anni di lontananza annientati in quel secondo in cui potevo esser lì a sostenerti, come mi avevi sostenuto tu milioni di volte, gli onori che la vita e la morte ti fanno.
Tu sorridesti e in quel preciso istante, cercasti e trovasti all’interno del tuo corpo tutte le energie necessarie per vivere un attimo di normalità. Una sigaretta chiedesti, la accendesti e disteso sul letto, accavallando la gamba in barba al dolore, cominciasti a parlare in maniera del tutto normale del presente e del futuro. Tu padre, io figlio, come migliaia di volte era stato, intenti a conversare normalmente, come se niente fosse. Ricordo che parlammo di Livia e di famiglia, ricordo che parlammo di tante cose che in un vortice di emozione e fremito non riesco qui a elencare. Lo spazio di una sigaretta, due minuti di normalità compressi tra tabacco e cartina. Quando il mozzicone cadde sul posacenere di cristallo mi guardasti nuovamente – Adesso devo veramente riposare…sono stanco…chiudi le finestre e spengi la luce per favore… – dicesti e ci abbracciamo, dopodiché feci quello che mi avevi chiesto e uscii dalla stanza, lasciandoti prendere accordi con la morte che di lì a poco, chissà dove ti avrebbe portato.
Cinque anni sono passati da allora. Tu sei sempre tu, fermo nel tempo in quegli anni che vanno dal quarantotto del secolo scorso al quindicesimo di questo. Io, non lo so più chi sono. Sicuramente un po’ invecchiato, sono più disilluso, distaccato. La vita è molto lineare da quando il telefono non squilla più col tuo nome impresso sullo schermo. È come se stessimo giocando ancora a pallone insieme e improvvisamente avessi deciso di smettere. Io sono rimasto in mezzo al campo, la palla vicino al piede indeciso se calciarla via o sedermi per terra ad aspettare che torni o che tutto quanto scompaia, o che la palla mi parli, o che il tempo si riavvolga per donarmi ancora un minuto di te, un minuto di me, un minuto di noi.