Ho perso un’idea nel risveglio, in quel delicato momento che si colloca tra il ritorno alla coscienza e l’apertura degli occhi. L’ho persa lì, su una spiaggia di sabbia bianca e mare cristallino, proprio mentre l’onda arrivando lambiva i miei piedi, per poi tornare alla grande distesa d’acqua. L’ho persa lì, tra quel raggio di sole caldo, oscurato un secondo dopo da una nuvola, tra un soffio di vento fresco e la calura d’agosto, tra la quiete e il dolore.

È stato un secondo, il tempo di pensare o forse di dire, piano, a voce bassa – l’ho presa! – che già lei se ne era andata a stimolare altri neuroni, a risvegliarsi in altre menti, più vivaci, meno sornione della mia. Così, mi son seduto sul letto, cercando di riportarla a me, sentendomi un folle, che richiamare un’idea perduta è forse la più difficile delle azioni che possiamo intraprendere.

Adesso son qui, seduto alla scrivania, un po’ malinconico, per non dire triste, che questo non è certo motivo, per suscitare la compassione di chi si trovi a passare di qui a leggere un mio delirio giornaliero. Sono qui, che ripenso a quell’idea, diventata oramai soltanto una sensazione, l’idea dell’idea appunto, che piano piano è scivolata nell’oblio, che lentamente è tornata a far parte di quel mare di coscienza collettiva, del quale tutti i costrutti mentali umani fanno parte.

Adesso son qui, che provo a materializzarne il pensiero, che quell’idea perduta mi ricorda le occasioni mancate per un soffio, per un attimo di esitazione, smarrite anch’esse tra miriadi di ricordi sfumati, che appartengono ad altri e solo virtualmente alla mia memoria. Guardo il sole, chiudo gli occhi, rifletto, li riapro lentamente, l’idea è diventata quei centimetri di pelle che non ho sfiorato, quei baci che non ho dato, quei momenti in cui non sono riuscito a dire qualcosa che andava detto, per forza, quei secondi in cui ho preferito scappare, piuttosto che restare, tutto quello che poteva essere e almeno per questa volta non è stato.

No, non rimorso, né frustrazione e nemmeno rimpianto, figurati, piuttosto sensazioni, travolgenti, mirabolanti, indescrivibili. Sensazioni che così, messe sotto forma di parole, non rendono l’idea, non riescono a disegnare in maniera nitida quello che sento, fotocopia di quello che ho provato questa mattina, quando l’idea appena arrivata, è scomparsa e mi ha lasciato lì, perso sul bordo del letto, affacciato sul baratro vuoto di un’esistenza pressoché inutile, alla quale ci ostiniamo a voler dare un senso.

Così si è trasformata in una giornata di sole, in uno sguardo di lacrime, nella fredda pioggia autunnale, nell’erba che cresce senza fine a nascondere la grettezza della zolla, nel canto di un uccello, in un profumo, si è trasformata nell’idea del tutto che circonda il niente.

Dal sonno son passato alla veglia, c’è voluto un attimo, se consideriamo il tempo quantificato dagli orologi, forse nemmeno un paio di secondi, gli occhi erano chiusi e lei si è presentata al mio cospetto sotto forma di melodia, non dolce, non violenta, non grezza, non delicata, melodia senza forma, un vortice di suono. Ho provato a cantarla, ma non ci son riuscito, forse avrei dovuto comporla, ma cosa ne so io di musica? Cosa ne so io di vita?